martedì 14 ottobre 2008

Per la fama o per la fame?

La storia che mi accingo a raccontare narra del genio e della sventura di un uomo che per non decidersi a scegliere tra la fama e la fame patì da vivo la seconda e godette della prima da morto.

Lunedì 15 febbraio del 1512, poco prima dell’alba un ragazzo si sveglia di soprassalto. Seduto sul fatiscente letto che condivide con la sorella tende le orecchie e ascolta, senza capire. Con occhi sbarrati fissa la madre, i volti dei tre mostrano paura. Il ragazzo è magrolino, poco nutrito, vestito alla buona eppure è tale la paura che vorrebbe essere ancora più minuto e anonimo, vorrebbe sparire, portando con se la madre e la sorella. E’ un attimo e i tre si fiondano alla porta, urlando e tenendosi per mano escono in strada e iniziano una fuga disperata, verso un rifugio sconosciuto.

E’ guerra, e Brescia è una trappola. Non c’è via di fuga. Da due settimane i francesi assediano la città. Brescia, protetta dal popolo, ha appoggiato fino all’ultimo quell’atto di ribellione, ma la voglia di indipendenza verrà pagata a caro prezzo. I francesi non vogliono solo ripristinare il controllo, vogliono infliggere una punizione esemplare agli insorti.

I tre intanto si sono uniti ad altri uomini in una fuga disperata. Imboccano stradine e vicoletti cercando di sfuggire alle truppe. Ma incappano in un vicolo cieco, sono circondati. “Niccolò, Niccolò!” Urla la madre, stringendo la mano dell’altra figlia, ma Niccolò è distante, in testa al gruppetto. Faccia a faccia con le truppe che gli corrono incontro, non ha neppure il tempo di voltarsi per fuggire che un soldato gli è addosso, spada sguainata mira al volto. Il ragazzo cade e altri due colpi alla testa e alla mandibola lo straziano.

Va meglio alle due donne, ma Niccolò è in una pozza di sangue, il volto irriconoscibile, maciullato e trapassato. Tra le urla della madre, che lo stringe al petto imbrattando di sangue del figlio la veste e il viso, il mondo sembra finire. Qual è la logica della vita di fronte alla morte? Quale soluzione potrebbe cercare una madre alla perdita di un figlio? Quale altra sciagura, dopo la morte del marito, deve subire la donna...

Io credo che una dose di fortuna debba toccare a tutti, ma che a pari fortuna debba sempre corrispondere una pari dose di sfortuna. Una equazione che vale sempre. Fu così che un uomo tanto povero da non poter andare a scuola godette invece di una altrettanta dose di genio e che sempre quell’uomo, quel ragazzo stretto al dolore di una madre, esaurì in quel momento, forse, l’intera sua dose di fortuna.

Un gemito impercettibile, ma tanto potente da zittire per un istante le urla della donna, che ora fissa con occhi gonfi il ragazzo. Un nuovo segnale, un lamento… Niccolò è ancora vivo!
Solo grazie alle cure della madre Niccolò nei mesi successivi si rimette, ma la sua mandibola è compromessa. All’inizio non poteva neppure mangiare, ma adesso riesce anche a parlare, seppure balbettando.
Questo difetto se lo porterà per tutta la vita. Gli amici lo ribattezzeranno Tartaglia e lui, sdrammatizzando, accetterà il nomignolo adottandolo come cognome.

Niccolò Fontana, detto Tartaglia, divenne un matematico… e che matematico! Le sue origini modeste non gli permisero di frequentare la scuola, tuttavia la madre riuscì a pagare un maestro privato che gli insegnò la scrittura delle lettere. Arrivati alla lettera “k”, tuttavia, le finanze si esaurirono e Tartaglia dovette abbandonare le lezioni. Continuò da autodidatta fino alla “z” e proseguì studiando tutto lo scibile dell’epoca sulla matematica e sulla fisica.

Tanto incerto era nel parlare quanto con lucidità e maestria era abile nel ragionare. Le sue umili condizioni lo aizzavano a dimostrare le sue capacità di fronte a coloro che avevano raggiunto il suo livello pur non patendo tali sofferenze e frustrazioni.

Tra Verona e Venezia, città nelle quali visse e insegnò, conobbe molti matematici. A quel tempo per far carriera nel campo delle scienze bisognava dimostrare di essere unici, geniali, così da tentare di essere assunti da qualche mecenate. Per questo fine, se qualcuno scopriva qualcosa degna di nota, come una legge fisica o un metodo matematico, si guardava bene dal divulgarla, così da poter dire in giro di essere l’unico a conoscerla.

Si racconta che Tartaglia avesse conosciuto un certo Anton Maria Fiore, mediocre matematico che si spacciava capace di risolvere equazioni di terzo grado. Risolvere tali equazioni, a quel tempo, non era un problema tanto semplice, dato che ancora non si era scoperto alcun metodo risolutivo e, a complicare tutto, non si conoscevano ancora i numeri complessi e non si erano analizzate le proprietà dei numeri negativi. Fiore rappresentava per Tartaglia una sfida da non poter mancare.
Fu così che Niccolò studiò a fondo il problema, ragionò e provò, ma il compito era davvero molto arguto. Istigato dal dover dimostrare le sue capacità, finalmente, ricavò una soluzione generale per equazioni di terzo grado. Nascosti gli appunti in luogo sicuro si apprestò a preparare la sua sfida.

In quegli anni i matematici si sfidavano tramite cartelli di matematica diffida. Ogni contendente proponeva un certo numero di quesiti all’avversario, generalmente 30, che doveva risolverli entro un tempo prestabilito. Ogni cartello veniva depositato presso un notaio, stampato e poi divulgato nelle comunità di studiosi. Alcuni giudici, scelti di comune accordo, valutavano le risoluzioni dei problemi e dichiaravano vincitore colui che era riuscito a risolverne di più e in minor tempo.

Tartaglia iniziò a divulgare la notizia che lui aveva trovato la soluzione al problema delle equazioni di terzo grado e mise in dubbio l’effettiva esistenza e validità di un’analoga soluzione attribuibile a Fiore. Nel febbraio del 1535 Fiore inviò un cartello di matematica diffida a Tartaglia, che accettò prontamente.
Lo scontro fu memorabile, e sicuramente quella diffida è la più famosa che sia mai avvenuta. Fiore propose a Tartaglia 30 equazioni di terzo grado e altrettante ne ricevette da risolvere. Dopo due ore Tartaglia aveva risolto tutti i quesiti, ma non sarebbe bastato un anno intero affinché Fiore ne risolvesse solo uno di Tartaglia.

Ma perché allora Fiore sfidò Tartaglia?
Fiore di certo non aveva mentito, avendo più e più volte dimostrato di saper risolvere problemi di terzo grado.

Vent’anni prima l’insegnate di Fiore, Scipione Del Ferro, aveva effettivamente trovato una soluzione alle equazioni di terzo grado, ma non si decise mai a divulgarla. Solo su letto di morte, rivelò al suo allievo la sua scoperta. Fiore, tempo dopo, rivendicò il patrocinio del metodo immeritatamente. Ma allora perché non riuscì a risolvere i problemi propostigli da Tartaglia?
Il fatto fu che Del Ferro comunicò a Fiore una soluzione valida solo in un caso particolare di equazioni di terzo grado, Tartaglia invece ricavò una soluzione generale valida in ogni caso. Notando che Fiore proponeva solamente soluzioni per equazioni di un certo tipo gliene propose 30 di tipo differente.

La vittoria diede una certa notorietà a Tartaglia, ma la tanta auspicata chiamata da parte un qualche mecenate non arrivava. C’è da ricordare inoltre che Tartaglia, pur essendo un grande matematico aveva serie difficoltà a mantenere i posti da insegnate che gli venivano proposti a causa del suo problema di balbuzie.

La discreta fama che si susseguì dalla disputa portò Tartaglia alla conoscenza di un influente medico e studioso milanese, Girolamo Cardano, che iniziò a “corteggiare” il matematico. Con la promessa di trovargli un mecenate a Milano, Cardano supplicava Tartaglia di rivelargli il metodo risolutivo. Niccolò era di fronte ad una scelta, pubblicare il metodo così da ufficializzare la paternità della scoperta, oppure non divulgarla rendendosi più appetibile agli occhi dei facoltosi mecenati milanesi. L’influenza di Cardano però era un fattore non trascurabile per poter trovare un posto nella ricca città.

Cardano giurò di non divulgare mai la sua scoperta e Tartaglia gli spedì una poesia celante la soluzione tanto desiderata, soluzione che fu trovata a Venezia, “nella città dal mare intorno centa”:

Quando che 'l cubo con le cose appresso
se agguaglia a qualche numero discreto
trovan dui altri differenti in esso.
Da poi terrai questo per consueto
che il loro produtto sempre sia eguale
al terzo cubo delle cose netto,
El residuo poi suo generale
delli lor lati cubi ben sotratti
varrà la tua cosa principale.
In el secondo de codesti atti
quando che 'l cubo restasse lui solo
tu osserverai quant'altri contratti,
Del numero farai due tal partà volo
che l'una in l'altra si produca schietto
el terzo cubo delle cose in stolo
Dalla qual poi, per commun precetto
torrai li lati cubi insieme gionti
et cotal somma sarà il tuo concetto.
El terzo poi de questi nostri conti
se solve col secondo se ben guardi
che per natura son quasi congionti.
Questi trovai, et non con passi tardi
nel mille cinquecente, quatro e trenta
con fondamenti ben saldi e gagliardi
Nella città dal mare intorno centa


Questa poesia fu la dose di sfortuna che pareggiava i conti con la miracolante fortuna che lo tenne in vita quella mattina del 1512.

Cardano, infatti, in un primo momento mantenne il giuramento. Tempo dopo, però, scoprì che Fiore aveva saputo la soluzione da Del Ferro, quindi rintracciò il genero di Del Ferro che gli permise di dare uno sguardo alle carte del suocero. Cardano scoprì che Del Ferro non aveva solo scoperto la soluzione del caso particolare comunicato a Fiore, ma anch’egli era giunto a una soluzione generale.
Non sentendosi quindi più vincolato dal patto con Niccolò Fontana pubblicò in un trattato il metodo risolutivo, specificando tuttavia che lo aveva ricevuto dal Tartaglia.

Tartaglia andò su tutte le furie e iniziò una contesa legale che durò più di dieci anni. In un trattato Niccolò apostrofò con parole dure Cardano, denunciando la violazione del giuramento che quest’ultimo gli aveva fatto. Un allievo di Cardano, Ludovico Ferrari, in difesa del suo amico e professore inviò a Tartaglia sei cartelli di sfida in due anni. Ferrari impose delle dispute verbali, mettendo in difficoltà Tartaglia che, con i suoi problemi di parola, non riusciva a fare meglio dell’avversario. In aggiunta le dispute si tennero tutte a Milano dove il Ferrari godeva di molte amicizie.

Il 10 Agosto 1548 si tenne l’ultima disputa conclusasi con la sconfitta di Tartaglia, a cui non fu permesso di poter esporre le proprie ragioni. Tornato a Brescia, dove aveva da poco trovato un posto come insegnate, trovò ad aspettarlo il licenziamento.

Con difficoltà finanziarie e senza mai trovare un lavoro fisso Niccolò Tartaglia non riuscì mai ad avere successo. Il suo metodo risolutivo oggi è noto come “formula di Cardano-Tartaglia” avendo, i posteri, attribuito al medico parte del merito. Oltre al secondo posto nel nome della formula quella poesia costò a Tartaglia anche l’aver fatto venire alla luce l’esistenza della soluzione antecedente di Del Ferro che ne minimizza il prestigio.

Beffa volle che Tartaglia riscoprì numerosi metodi e sistemi matematici, come il famoso triangolo di Tartaglia, che con il tempo si scoprì che altri, in altri luogo del mondo e prima di lui avevano già scoperto.

Tuttavia il suo nome è giunto fino a noi ripagando una vita di fame con una fama immortale.

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