martedì 23 settembre 2008

Sul fiume Hudson...

“Pronto? Pronto? Ti sento piano! Sei lontano?”

Ricordo che è capitato anche a me. Da piccolo, in un viaggio con i miei. Da una cabina telefonica sgangherata, in Olanda, forse, telefonavamo alla nonna. Lei parlava forte ed io di rimando, come a colmare una distanza troppo grande. Grati, nondimeno, della magia del telefono che, anche a tali distanze, ci collegava come sempre.

E’ vero che se i telefoni che comunicano tra loro sono posti a forte distanza la voce si sentirà più flebile? Ed è vero che gli anziani hanno spesso l’abitudine di parlare a telefono a voce alta?

Forse, fino a pochi decenni fa, era vero che larghe distanze attenuassero l’intensità del segnale vocale, bastavano anche poche decine di chilometri per attenuarlo sensibilmente. Credo che sia per questo motivo che mia nonna, come tante altre nonne, tenda a parlare forte al telefono quando sa che chi parla è a molta distanza (complici anche l’età e l’abbassamento dell’udito!).

Oggi, tuttavia, questo problema della distanza è superato. Un tempo, infatti, il segnale vocale veniva trasformato attraverso il microfono della cornetta in un segnale elettrico, un segnale analogico, e veniva amplificato e trasmesso così com’era lungo i cavi telefonica. Se durante il tragitto doveva attraversare lunghe tratte poste tra delle centraline allora esso veniva amplificato ogni volta e ritrasmesso. La trasmissione di un segnale, infatti, non è un’operazione semplice, durante la propagazione il segnale subisce delle attenuazioni e se non amplificato non potrebbe coprire le distanze richieste.

Oggi, nell’era digitale, se il segnale telefonico deve attraversare lunghe tratte o passare dallo spazio, viene digitalizzato, ovvero convertito in una sequenza di 1 e di 0. Diviene un codice! Quel codice all’occorrenza verrà ritrasformato nel segnale originario e al volume desiderato! Inoltre per trasmissioni digitali non possiamo proprio dire di ricevere un segnale “troppo attenuato”, o lo si riceve o non lo si riceve. Tuttavia anche il segnale digitale ha bisogno di essere trasmesso forte e chiaro per evitare errori dovuti ad attenuazioni. Insomma tutti i segnali per essere trasmessi devono essere amplificati.

Fin dagli albori della telefonia, senza amplificatori in grado di aumentare la forze dei segnali, nessuno, urlando o no, avrebbe potuto effettuare una telefonata. In modo che tutti possano capire, si può pensare ad un amplificatore come ad una scatoletta con un foro d’ingresso e uno d’uscita, se si parla in un foro la voce esce ad un volume più elevato dall’altro.

Nel 1927, una compagna telefonica americana, che oggi si chiama Bell, studiava nei propri laboratori un sistema per la comunicazione telefonica a grande distanza. L’obbiettivo era di realizzare degli apparati che permettessero un collegamento efficiente tra le due coste degli Stati Uniti e tra l’America e l’Europa.

Uno degli ingegneri che lavoravano al progetto si chiamava Harold S. Black. Aveva 29 anni e da sei lavorava come ricercatore. Black doveva trovare un modo per migliorare le prestazioni degli amplificatori posti come ripetitori sulle linee telefoniche in modo da trasmettere simultaneamente più segnali a lunghe distanze.

Tali livelli di amplificazione infatti determinavano delle distorsioni eccessive del segnale. Come se la voce dalla nostra scatola uscisse fortemente amplificata ma del tutto incomprensibile. Anche riuscendo ad ottenere delle distorsioni accettabili le caratteristiche tecnologiche di quegli amplificatori li rendevano soggetti a forti variazioni del loro funzionamento, variazioni causate dai cambiamenti di temperatura e dall’invecchiamento.

Black cercava di perfezionare quegli amplificatori, inseguendo l’utopico desiderio dell’amplificatore perfetto, ma si rendeva conto nel contempo che produrre un amplificatore quasi perfetto era forse possibile, ma mantenerlo tale nel tempo e produrne tanti in larga scala era impensabile.

Gli amplificatori di oggi sono molto diversi da quelli usati nel 1927, ma Black di certo non poteva sperare di realizzare un amplificatore diverso da quello che si conosceva allora. Così come oggi non possiamo immaginare come saranno gli amplificatori del futuro.

No, posso asserire che Black non desiderava inventare un amplificatore che non avesse i problemi degli amplificatori di allora. Black era in cerca di un’Idea.

Un'idea semplice che potesse risolvere il problema senza stravolgere troppo il sistema su cui si stava lavorando. Un'idea economica e facile da realizzare. Un'idea che forse lui sapeva di poter avere.

Era il 2 agosto 1927 ed era mattina. Black si avviava, armato di valigetta, verso il battello Lackawanna sul fiume Hudson. Black prendeva il battello tutte le mattine per recarsi al lavoro a Manhattan. Prima di imbarcarsi, come sempre, comprò il New York Times e stretto sotto al braccio si avviò sul ponte in cerca di una panchina. Quella mattina fissava come sempre col capo chino quella prima pagina di giornale, senza però riuscire a leggere i titoli degli articoli. Quella mattina Black era assorto nei suoi pensieri. Black era alla ricerca della sua Idea.

Fu un gesto automatico che nessuno notò, che nessuno capì fino in fondo per quello che era, che suscitò forse per qualche secondo la curiosità del suo vicino di seduta, ma nulla più. Black sfilò del taschino una matita e schizzò su quella prima pagina un diagramma.

Il diagramma mostrava il disegno di un normale amplificatore il cui cavo d’uscita veniva riattaccato ad un cavo d’ingresso.
Per tornare all’esempio della nostra scatola, immaginate di far rientrare con un tubo la voce dal foro di uscita al foro di ingresso.
Il diagramma mostrava un amplificatore retroazionato negativamente.

Black ricavò velocemente le proprietà fondamentali di quello schema. Giunto alla fine dei suoi conti ebbe un sussulto. Il cuore gli batteva all’impazzata. Aveva avuto la sua Idea.

Firmò immediatamente i suoi appunti in fondo alla pagina del giornale e, appena arrivato in laboratorio corse dal suo direttore Blessing mostrandogli il quotidiano. Questi convintosi dell’importanza dell’invenzione firmò anch’egli a piè pagina quale testimone.

La trovata fu mirabolante per lo sviluppo tecnologico del secolo scorso. Il 29 dicembre dello stesso anno Black verificò sperimentalmente per la prima volta le caratteristiche dei sistemi retroazionati negativamente, misurando una riduzione della distorsione di un fattore 100.000 sui segnali vocali, utilizzando così il primo amplificatore retroazionato della storia.

martedì 16 settembre 2008

Marketing virale

“Ciao, fai leggere questo post ad almeno dieci persone e sarà per te una giornata fortunata!”

Chissà quante catene di sant’Antonio con richieste come questa ricevo ogni giorno tra le mie caselle e-mail, il pensare poi che alcune fanno il giro del mondo e vengono tradotte in decine di lingue, rimaneggiate, criptate, travisate, sfruttate e anche censurate dai governi, mi sbigottisce.

Mi sbigottiscono le migliaia di copie che vengono inviate nella rete e mi sbigottisce il tempo brevissimo con il quale si moltiplicano. Come ciò sia possibile mi è perfettamente chiaro, ciò che mi incuriosisce di più è il sapere che da qualche parte, chissà quanto tempo prima, qualcuno il cui aspetto, sesso, età e nazionalità resteranno per sempre sconosciuti, ha scritto una prima e-mail e l’ha inviata a qualche conoscente decretando così un Inizio.

Il marketing virale è una forma di comunicazione pubblicitaria (a fini di lucro e no) basata sul passaparola. Un’idea originale, riesce, grazie alla sua natura o al suo contenuto, ad espandersi rapidamente su una data popolazione, sfruttando le capacità comunicative dei suoi componenti.

Grazie all’e-mail facciamo parte ogni giorno di un numero incalcolabile e imprevedibile di cicli di marketing virale e la loro efficacia è garantita dalla facilità e rapidità del mezzo.

Poco più di tredici anni fa, tuttavia, l’e-mail non era così diffusa, anzi non lo era per niente, per non dire che era quasi sconosciuta. Solo l’imprenditoria e la ricerca ne facevano uso e, per farne, bisognava pagare.
L’imprenditore Draper Fisher Jurvetson possedeva già un indirizzo e-mail quando, dopo averne inviata una di auguri natalizi a un suo collega ricevette nel suo studio Sabeer Bhatia e Jack Smith.

Era il 1995 e Sabeer aveva appena compiuto 27 anni, dall’india si era trasferito negli stati uniti qualche anno prima, sicuramente in quel momento si sentì felice di aver fatto quella scelta. Di Jack, purtroppo, ne so poco. Jack e Sabeer si conobbero alla Apple, nella quale entrambi erano impiegati.

Jurvetson era noto già allora per la sua politica di appoggiare e finanziare ogni sorta di idea che riguardasse Internet, quella che sentì quella sera forse fu la prima delle migliori che ha sentito fino ad oggi.

Sabeer e Jack gli proposero di sviluppare un servizio gratuito di e-mail basato sul Web. L’idea era di fornire un account a chiunque lo volesse e di rendere gli account accessibili dal Web. Tramite la gestione del proprio account via Web, chiunque avesse accesso ad Internet avrebbe potuto possedere e usare un’e-mail senza pagare e senza essere dotato di alcun software specifico. La trovata, inoltre, permetteva anche molta mobilità, da qualunque parte del modo e su qualunque computer sarebbe stato possibile leggere e inviare la propria posta e consultare il proprio archivio.

Ma dove stava il guadagno?
Nella pagina Web con la quale si consultava la propria posta sarebbero apparsi dei banner pubblicitari. Se l’idea avesse funzionato si potevano prevedere forti guadagni con la vendita di quegli spazi.

In cambio del 15% della loro compagnia, Draper Fisher Jurvetson finanziò Bhatia e Smith, che fondarono una società chiamata Hotmail.

Con tre persone a tempo pieno e una dozzina part-time che lavoravano in cambio di azioni svilupparono il servizio in soli sei mesi lanciandolo nel luglio del 1997.
Dopo solo un mese si contavano già 100.000 iscrizioni e la crescita era esponenziale.

Nel dicembre del 1997 gli iscritti erano più di 12 milioni e, dopo 18 mesi dal lancio e solo 2 anni da quella fatidica sera, Microsoft acquisiva Hotmail sborsando 400 milioni di dollari.

L’avere avuto prima di chiunque altro l’idea e l’averla realizzata rapidamente è stato il fattore vincolante per il successo di questi uomini. Anche se altre società abbiano immediatamente copiato l’idea, quel vantaggio di sei mesi sulle altre è bastato per mantenere un distacco decisivo.

Con i guadagni Jurvetson finanziò negli anni a seguire numerose idee brillanti, piazzandole sempre per svariati milioni di dollari ai migliori offerenti. Tra i clienti di Jurvetson incontriamo Yahoo, che ha acquistato dal lui Overture, e eBay che ha comprato Skype per poco più di due miliardi e mezzo di dollari.

sabato 13 settembre 2008

Quanto diamo per scontato.



Dare per scontato è una necessità, se ci chiedessimo il motivo o il come di ogni cosa, non ci basterebbero diverse vite solo per porci le domande. Tuttavia stupirsi di nulla è sinonimo di ozio e di inoperosità. L’uomo nella sua pigrizia è felice il primo giorno, ma inizia ad avvizzire il secondo.


In qualsivoglia tempo della storia dell’umanità, gli uomini hanno sempre dato per scontato quegli oggetti di uso quotidiano frutti, in realtà, dell’ingegno di altri che li hanno pensati o che li hanno scoperti.


Per chiunque è un fatto assolutamente normale osservare un’automobile muoversi, o un aereo volare, o aprire un rubinetto e sentirsi bagnare da linda acqua calda, o accendere un televisore e vedere!


Tutte cose che poco più di un secolo fa, erano impensabili o irrealizzabili. E’ stata la ricetta del progresso a guidare l’uomo ai giorni nostri, gli ingredienti principali sono sempre gli stessi: caso, ingegnosità, necessità, curiosità, forse denaro e poco più.


Un po’ per carattere un po’ studiando ingegneria, mi ritrovo spesso a domandarmi sul come possano funzionare determinati oggetti, o su chi sia riuscito a trovare per primo la soluzione ad un determinato problema e in che modo(!), a come certe idee rivoluzionarie o geniali siano venute in mente ai loro ideatori.


Questi quesiti mi hanno portato a collezionare storie di uomini speciali, di uomini fortunati, che hanno avuto la capacità o la sorte di contribuire al progresso. Come è giusto che sia, ogni storia è del tutto singolare e mai scontata e ho deciso di raccontarle, una ad una e tutte insieme in questo blog.


Sarà una sorta di club, una comitiva delle idee e dei progetti arguti dell’ingegneria che mi tengono compagnia e mi incoraggiano nella speranza di entrarne a far parte, un giorno, anch’io.


Buona lettura.